Genova. E’ stato un duro affondo quello del procuratore generale Mario Pinelli contro la sentenza della giudice Angela Nutini che a marzo aveva prosciolto Annalucia Cecere dicendo no al processo per il delitto di Nada Cella, la giovane segretaria ammazzata a Chiavari il 6 maggio 1996.
La requisitoria del procuratore generale, insieme all’appello della pm Gabriella Dotto che non si è persa d’animo dopo quella sentenza, ha convinto i giudici d’appello dopo una lunga giornata di discussioni in aula e due ore di camera di consiglio a mandare a processo l’ex insegnante imputata per quel delitto.
Ma quella requisitoria contiene un attacco altrettanto altrettanto duro, nei confronti di chi coordinò le indagini dell’epoca, vale a dire il pm di Chiavari Filippo Gebbia, oggi in pensione. “Quelle svolte all’epoca dei fatti – ha detto il procuratore ieri mattina davanti alla corte d’appello – furono indagini mal gestite, affrettate e caratterizzate da un’assenza di direzione verso gli investigatori”. Non ci fu alcun coordinamento tra il lavoro svolto dalla polizia e gli elementi raccolti dai carabinieri: “quello che facevano gli uni non era a conoscenza degli altri, come dimostra la vicenda dei bottoni trovati dai carabinieri a casa di Cecere di cui la polizia non venne informata”.
Indagini caratterizzate anche da scelte che hanno lasciato certamente perplessi anche giudici della corte dall’appello, come quella – ricordata ieri in aula di staccare – la decisione fu ancora una volta della procura – l’intercettazione di Cecere dopo soli quattro giorni, senza nemmeno attendere la fine naturale (15 giorni) del periodo minimo autorizzato da un giudice.
Pinelli ieri ha attaccato la sentenza della gip Nutini definendola “in larga parte travisante e illogica”. “Gli elementi emersi dalle nuove indagini – ha detto non possono essere ricondotti a meri sospetti. Si tratta invece di veri e propri elementi indiziari idonei a supportare la ragionevole previsione di condanna come prevede la riforma Cartabia”.
La delicatezza di un cold case rimasto per quasi trent’anni senza un colpevole e l’impegno messo dalla squadra mobile e dalla Procura nel costruire l’impianto accusatorio dopo tutto questo tempo, tra testimoni ormai non più in vita e atti di indagine andati dispersi, hanno spinto – cosa che avviene assai di rado – il procuratore generale a indossare in prima persona i panni della pubblica accusa in aula senza affidare come da prassi il fascicolo a un sostituto.
Pinelli in questi mesi aveva studiato a lungo i venti faldoni del pm e fatto suo il lungo e dettagliato atto d’appello della pm Gabriella Dotto che aveva messo in fila tutti gli errori e le omissioni contenute a suo avviso nella sentenza di proscioglimento.
E ieri in udienza ha collegato con una sorta di filo rosso gli elementi portanti dell’indagine che fanno capo secondo l’accusa a un movente preciso: “Cecere frequentava Soracco e puntava con lui ad avere un rapporto duraturo per sistemarsi non solo dal punto di vista lavorativo – ha ricordato – Ma Soracco, sollecitato dalla madre Marisa Bacchioni non era disponibile a quel tipo di rapporto”. “La madre aveva fatto bloccare da Nada le telefonate di Cecere e per questo la donna quella mattina, indispettita, è andata nello studio del commercialista”.
Lì Cecere ha trovato Nada, ne è nata una lite degenerata – sostiene la Procura. Un delitto d’impeto – sostiene la Procura – e poi una fuga precipitosa che Marco Soracco vide in prima persona e per qualche ragione, che potrà essere meglio chiarita a processo – decise di tacere.