Genova. Capitolo giudiziario finale quello che andrà in scena giovedì 21 novembre in Cassazione a Roma per la drammatica vicenda di Roberta Repetto, la 40enne di Chiavari morta dopo l’asportazione di un neo al Centro Anidra. Ribaltando la sentenza di primo grado, che aveva condannato Paolo Bendinelli, il guru del Centro Anidra e il medico Paolo Oneda per omicidio colposo a tre anni e 4 mesi con l’abbreviato, la sentenza d’appello ha assolto in secondo grado Paolo Bendinelli e condannato a 1 anno e 4 mesi di reclusione con la condizionale Oneda, considerandolo in parte responsabile della morte di Roberta Repetto.
In Cassazione nessun ribaltamento della sentenza penale
A far ricorso davanti alla Suprema Corte sono stati solo i famigliari. La Procura generale, che pur aveva chiesto la condanna per omicidio con dolo eventuale ha scelto di non ricorrere in Cassazione. La decisione maturata aveva lasciato sgomenti i famigliari che hanno comunque presentato ricorso. “Con questa decisione hanno ucciso mia sorella ancora una volta” aveva detto Rita Repetto a caldo.
Ma un eventuale accoglimento del ricorso della famiglia di Roberta Repetto, assistita dall’avvocato Andrea Andrei, avrà soltanto effetti sul risarcimento, se gli Ermellini dovessero decidere per una responsabilità anche da parte del fondatore del Centro Anidra oltre che di Oneda, ma nessuna conseguenza penale.
“Spero con tutto il cuore che quest’ultimo grado di giudizio possa portare un po’ di giustizia a mia sorella, nonostante il voltafaccia della Procura di Genova” ha detto Rita Repetto, che dal 2020, oltre a chiedere a gran voce giustizia per la sorella, è impegnata in un’opera di sensibilizzazione sul cosiddetto fenomeno ‘settario’ attraverso l’associazione ‘La pulce nell’orecchio’.
La vicenda
Roberta era morta nel 2020, a 40 anni, dopo essere stata operata per togliere un neo – rivelatosi poi una gravissima forma di melanoma – in una delle stanze del centro olistico Anidra. Di fronte ai dolori crescenti e un generale peggioramento delle sue condizioni di salute dopo l’intervento, Repetto non era stata accompagnata in ospedale né da uno specialista, ma era stata tranquillizzata sull’esito positivo dell’operazione e curata, scriveva l’accusa, con “tisane zuccherate e meditazione”. La donna era morta all’ospedale San Martino a due anni dalla rimozione del neo su un tavolo del Centro Anidra: gravissime ormai le sue condizioni a causa delle metastasi, e ai medico non era rimastonurlla da fare. Bendinelli e Oneda erano stati condannati in primo grado con l’accusa di omicidio colposo, entrambi a tre anni e quattro mesi di reclusione con lo sconto di pena dato dall’abbreviato. In appello, lo scorso febbraio, i giudici avevano come detto assolto Bendinelli e ridotto a un anno e quattro mesi con sospensione condizionale la pena per Paolo Oneda. Nelle motivazioni della sentenza i giudici hanno smontato la tesi dell’accusa e quanto da sempre sostenuto dalla famiglia, ovvero che Roberta fosse stata plagiata da Bendinelli e allontanata da affetti e punti di riferimento per fondersi completamente con il mondo e la visione del fondatore del centro e della comunità che lo frequenta.
La sentenza di appello
Secondo la Corte d’appello, Bendinelli non aveva isolato Repetto dal mondo allo scopo di circuirla tanto che nei mesi dopo l’intervento Repetto “svolgeva tranquillamente la propria attività lavorativa all’esterno del Centro Anidra e cooperava all’attività del Centro nel tempo residuo” e vedeva la famiglia. E di quell’intervento – che lei stessa aveva richiesto si svolgesse in quel modo erano informati “amici e famigliari”. “Fatta eccezione per gli ultimi giorni di settembre 2020, Roberta Repetto è stata sempre in grado di muoversi autonomamente” quindi secondo i giudici “avrebbe potuto recarsi al pronto soccorso o presso altra struttura sanitaria; ove poi avesse ritenuto di non potersi muovere, nulla avrebbe potuto impedirle di chiedere con una semplice telefonata l’invio di un’ambulanza che la portasse in ospedale”. E Bendinelli secondo i giudici di secondo grado, né rispetto all’intervento né a quello che avrebbe potuto fare successivamente, non aveva una posizione di garanzia nei confronti della 40enne: in sostanza, non c’era alcun “obbligo giuridico” che gli imponesse “di intervenire a tutela della salute di Roberta Repetto”. Non aveva alcun obbligo di convincerla, né tantomeno costringerla secondo i giudici, ad andare al pronto soccorso o a farla visitare da un oncologo.
Diversa la posizione di Paolo Oneda, il medico chirurgo bresciano che operò Repetto per rimuoverle il neo su richiesta della donna. Un medico avrebbe potuto – anzi dovuto – eseguire l’istologico sul tessuto rimosso – senza il consenso della donna. Oneda ha poi secondo i giudici la colpa grave di non aver adeguatamente informato Roberta Repetto sui rischi che correva: “Tutto lascia ritenere che Roberta Repetto non venne informata, quantomeno non in modo completo e per lei comprensibile, in merito alla importanza dell’esame istologico ed alle possibili conseguenze – scrivono i giudici che sottolineano che “Roberta Repetto era una convinta naturista, fermamente convinta della bontà dei rimedi di carattere naturale e solita rifiutare i trattamenti sanitari tradizionali” ma che “non sono emersi •elementi tali da far pensare che avrebbe sostenuto tali convinzioni anche a fronte della prospettiva della morte a breve termine” come per esempio il fatto che si farà ricoverare quando le sue condizioni saranno ormai troppo gravi. E proprio il ricovero che ne ha preceduto la morte, secondo la Corte d’appello, è sintomatico del fatto che Repetto non avesse idea del perché stava così male: “Ancora il 5 ottobre 2020 – ricordano i giudici – chiede ad Oneda cosa fosse ‘quel coso’ che gli aveva tolto” e chiede alla dottoressa dell’ospedale di Lavagna che le aveva fatto una gastroscopia quali fossero le sue condizioni di salute. “Il medico le rispose che le restavano pochi mesi di vita”.